Non mi ricordo l’anno né, tantomeno, il mese e il giorno in cui fui coinvolto per la prima volta da papà in una discussione sul lavoro, mi ricordo però che qualche mese dopo traslocammo nel quartino di palazzo Limone, di fianco al cinema Arcobaleno, nella traversa di Corso Secondigliano, piano terra. Papà con i propri compagni di lavoro stabiliva rapporti di affetto vero e perciò si dispiaceva sul piano personale quando le cose non giravano come secondo lui dovevano girare. Lui era abituato alle fatiche da impresa privata, ai lavori per la costruzione delle infrastrutture che avrebbero consentito, nei primi anni 50, di portare la corrente elettrica fin su nei paesini delle montagne abruzzesi e calabresi, cosicché quando passò all’Enel le cose da fare gli sembravano sempre poche. E poi lui era fatto così, per natura e per convinzione, e guai a contraddirlo quando diceva che “a fatica va pigliata ‘e faccia”, nel senso che le cose vanno fatte al meglio, nel più breve tempo possibile, così poi c’è il tempo per fare qualche altra cosa o anche per prendere un caffé, ma con la coscienza tranquilla di chi ha già fatto quello che doveva fare.
Forse è perché con mamma di lavoro non gli piaceva parlare, o forse perché quella cosa lì voleva dirla proprio a me, quella serà mi guardò e mi disse “’e capito, io dico a Sebastiano di finire il lavoro del giorno precedente e quello mi risponde calma Pascà, ’a fatica va fatta a meglio a meglio”. “A meglio a meglio?, e che significa? – gli chiedo -, e lui mi risponde “significa che prima ci prendiamo il caffé, poi magari inquadriamo un pò la situazione, poi facciamo qualche cosa di più semplice e poi alla fine finiamo il lavoro. Può darsi che nel frattempo ci chiamano da qualche altra parte, e qui il lavoro lo viene a finire un’altra squadra”. Ma se pò arraggiunà accussì? fu la finta domanda e la vera, amara, conclusione. Già. Si può ragionare così?
Le eresie sono cose che capitano a chi pensa con la propria testa. E dato che io soffro ogni tanto di questo disturbo ve ne propongo una.
Diciamo che per accendere e stimolare questo bel dibattito ho pensato a questa diversa lettura di uno degli argomenti che sono stati trattati.
Vengo subito al dunque: c’è un articolo della costituzione Italiana che non mi piace. Quale?
L’articolo 1 !
buuuu buuuu basta finiscila buuuu buuuu, ma che dice questo?
Calma, mi linciate alla fine.
Allora: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” Uhmm, quindi, sui lavoratori, uhmmmm.
E gli studenti? E i pensionati? E gli inabili? E gli inoccupati? E i disoccupati? E i vecchi e i nonni? Su tutti questi non si fonda?
Il Lavoro che è sicuramente un valore ed un diritto, è però solo una parte della nostra vita, una parte della nostra esistenza, una parte della nostra giornata. Viviamo anche di amore, di affetti, di amicizie, di passioni, di solidarietà, di letture, di giochi, di vizi…
Io immagino una carta costituzionale come l’espressione di grandi valori ed alti principi su cui una comunità si aggrega. Non me ne voglia il lavoro ma forse temi come la “LIBERTÀ o il RISPETTO DELLE DIVERSITÀ oppure come il DIRITTI FONDAMENTALI DELLA PERSONA sarebbero più adatti per un testo di questo tipo, e soprattutto come esordio.
Questi principi che ho citato sono universali nel tempo e nello spazio, valgono sempre da quando veniamo al mondo a quando lo lasciamo.
Ma c’è dell’altro. Il termine lavoro di per se non è necessariamente portatore di cose sane come, ad esempio, il termine “rispetto delle diversità”. Lavoro nero, lavoro sottopagato, lavoro sporco, lavoro non pagato come accade negli ultimi tempi, lavoro da schiavi. Insomma il termine lavoro si presta anche ad altre situazioni, fino alle più aberranti. I nazisti fondavano sul lavoro la creazione del loro spazio vitale sfruttando esseri umani ridotti in schiavitù; “il lavoro rende liberi” era l’orribile frase che appariva all’ingresso dei campi di concentramento. (Sento i borbottii crescere…)
Ok va bene, ho esagerato.
Sia ben inteso, l’ho già detto e lo ripeto: il lavoro è un diritto ed un valore, solo che a mio modesto modo di vedere viene un nanosecondo dopo la libertà, la dignità della persona, il rispetto per le diversità; proprio un nanosecondo dopo (miliardesimo di secondo per chi non avesse dimestichezza con i prefissi scientifici)
Insomma io non avrei esordito così. Quest’articolo è chiaramente un condensato della particolare situazione storica che stava vivendo l’Italia oltre che il mondo intero. Il fascismo cade nel 43, con lo strascico nel nord della RSI, nel 45 finisce la guerra, nel 46 nasce la Repubblica, nel 48 viene promulgata la costituzione. Due grandi poli: quello cattolico e quello comunista. De Gasperi avrebbe voluto una repubblica più “cristiana”, Togliatti l’avrebbe voluta più “popolare”. Alla fine, trovarono la quadra: si accordarono sul termine “lavoro”. Le classi lavoratrici erano il riferimento dei due poli, quelle che esprimevano quasi tutto l’elettorato. Non potevano trovare di meglio.
Quell’articolo andava bene in quel momento, è andato bene per tutta la guerra fredda, ma adesso si potrà dire molto sommessamente, che forse vale la pena di modificarlo (arrrrgggghhh)
No, purtroppo non si può; non adesso, non ancora, perché adesso rientra nella logica degli schieramenti, delle contrapposizioni di parte. Fino a che ci sono dei farabutti al potere ed altrettanti all’opposizione non si potrà parlare di queste cose in maniera serena ed aperta.
Sapete come inizia la costituzione americana? WE, THE PEOPLE
“Noi, il popolo italiano, riconosciamo nella libertà di pensiero, nel rispetto delle diversità e nella dignità della persona i principi fondanti della nostra repubblica democratica”
No? Vi piace di più “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” ? Vabbe’, continuiamo così, come diceva Nanni Moretti, facciamoci del male.
E adesso via con il lancio delle pietre, mi raccomando però tirate quelle grandi che quelle piccole vanno dentro gli occhi :-)
Cavolo la storia di Maria mi ha fatto ripensare ancora una volta a me bambina. Anche mamma e sua sorella avevano un piccolo laboratorio. Loro erano camiciaie e anche io, insieme alle mie cuginette, tagliavo i “capi di cotone” e piegavo le camicie. Anche per noi era uno splendido gioco. E anche la storia di Adriano mi ha riportato al passato, come ho detto, mamma cuciva e nonna aveva un banco di frutta. Tante storie diverse ma tutte uguali. Tutte fatte di gente che viene da valori veri lavoro e famiglia in primis e di sacrifici, soprattutto quelli delle nostre mamme che, senza saperlo, precorrevano i tempi, affidando i loro piccoli ad altri, perchè per quei cuccioli si sacrificavano magari sperando di poter dare loro più di quanto esse stesse avevano avuto. Forse ci hanno effettivamente migliorato la vita ma lo hanno fatto soprattutto trasmettendoci, attraverso quei valori, il senso della vita stessa.
Lavoro: farlo bene, con dedizione, con passione, con senso del dovere ed anche con sacrificio l’ho imparato che ero molto piccola. Mio padre era impiegato nelle poste del mio paese e lo stipendio era quel che era. Mia madre, brava nel ricamo, insieme a sua cugina anche brava nel cucire, pensarono di aiutare i loro mariti sfruttando questa loro arte. Così trasformarono una stanza dell’appartamento di mia zia in un vero e proprio laboratorio. Cucivano grembiulini scolastici e corredini per neonato per un negozietto del paese, oggi diventato una boutique di abiti firmati, Mia zia tagliava e cuciva, mia madre faceva gli occhielli e cuciva i bottoni ai grembiulini neri. Bisognava farli bene, altrimenti il negozio non li avrebbe più commissionati e consegnarli come stabilito dagli accordi. Noi bambine, piccole di 3, 4 e 5 anni ( io, mia sorella e la nostra cuginetta) avevamo l’incarico di togliere i fili dell’imbastitura, badando bene a non lasciarne dietro nessuno. Per qualche anno è andata così. Anche quando ,poi, andavamo a scuola, dopo i compiti, aiutavamo le nostre mamme. Era quasi un gioco e ancora non avevo associato la parola lavoro a duro sacrificio. Poi venne il giorno in cui a mio padre fu affidato l’incarico di Direttore ma in un paese lontano, in Calabria, sull’Aspromonte. Accettò per la possibilità di carriera e per un guadagno maggiore, anche perché, nel frattempo, eravamo diventati tre figli . Papà partì, prima da solo e poi lo seguì mia madre e il mio fratellino piccolo. Io e mia sorella, per la scuola, restammo e fummo sistemate a casa di mia zia, in attesa delle vacanze estive, tempo in cui avremmo raggiunto i nostri genitori. Il distacco fu così doloroso che ancora oggi a pensarlo provo la stessa angoscia. In quei momenti ho imparato che il lavoro può portarti anche lontano dai tuoi affetti, dalle tue origini, ed è necessario andare e farlo bene. Da allora, per lavoro, ho visto partire il mio fidanzato, ora mio marito, mia sorella, io stessa, poi di nuovo mio marito, infine mia figlia. Tutti con un alto senso del dovere e con la certezza che il lavoro rende liberi.
Per me la parola lavoro è sempre stata associata ad indipendenza.
Ho sentito parlare di lavoro penso appena nata o quasi..
Mia madre pur di lavorare ha litigato con sua madre, io l’ho sempre considerata una femminista in anticipo sui tempi, ha fatto il primo concorso in prov di Brescia, e l’ha vinto! così con me di 4 anni e mezzo e mio fratello di 1 siamo finiti in Valcamonica ,mio padre faceva su e giù ogni mese!!!
Mi faceva quasi il lavaggio del cervello , ”Lavora-diceva- non vorrai chiedere i soldi a tuo marito anche per comprarti un paio di calze?”
E ancora,” Per noi donne lavoro vuol dire indipendenza, non è solo disponibilità economica”, lei riesce ,anche adesso ,a guardare lontano.
Quando è arrivato il mio turno non vedevo l’ora di finire l’università per lavorare,
una fretta….e poi concorsi a tempesta…(allora si bandivano!!!)
Finisco a Verona, in provincia , proprio l’anno che mi dovevo sposare, ovviamente ci vado! Su e giù col treno come se fosse un autobus…
Non mi sono mai lamentata, ero già ‘grande’, finalmente indipendente.
Quando qualcuno mi diceva -Sei stata fortunata!!!- diventavo una belva, la fortuna si conquista con le unghie e con i denti…adesso però mi rendo conto che anche le opportunità di poter lottare sono importanti, se non avessi avuto la possibilità di partecipare ai concorsi??? cosa sarebbe successo???
Il lavoro è l’essenza dell’identità umana Non è un caso infatti, che il primo articolo della Costituzione italiana reciti: L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La prima volta che ho sentito la parola ” lavoro”, è stato alla tenera età di 2 anni quando mia madre mi portava all’asilo nido dicendomi :- Tesoro, mamma va a lavoro : fa la brava, mangia tutto, non far arrabbiare le suore e gioca con i bambini. Torno stasera!- Io giustamente a 2 anni provavo tristezza nel vedere che mamma mi abbandonava ad estranei per intere giornate e pensavo – Mamma va a lavoro, ma tanto che è importante? E io ? Perchè non mi pensa? Perchè mi lascia con queste 3 suore?-(stendo un velo pietoso sul comportamento delle suore che hanno traomatizzato la mia infanzia). Quando ero piccina, dunque credevo che il lavoro fosse un nuovo modo per passare il tempo e, dato che di natura sono molto insicura dell’affetto che le persone care e non provano nei miei confronti, credevo non mi volesse vedere per un pò di tempo perchè magari piangevo,o facevo capricci. Sono stata sempre molto complessata in questo senso. Cerco sempre amore, e anche quando arriva e ne godo l’essenza, credo sia un’illusione.
A 11 anni ho cominciato poi a lavorare come modella fino all’età di 15. Poi il mio fisico abbastanza sviluppato, non mi ha più permesso di farlo e da allora ho cominciato fino a poco tempo fa a fare altri lavori come hostess,animatrice e da poco doposcuola in modo da poter studiare. Lavoro attualemte come part-time all’università e qualche volta per arrotondare faccio la baby sitter, ma non sempre!
Il lavoro dunque è la mia vita. Tutti questi piccoli lavoretti mi permettono di avere autonomia e mi stanno formando molto.Sto crescendo tantissimo.
Credo, dunque, che il lavoro sia fondamentale per l’essere umano ke senza esso si sente praticamente vuoto, fallito (anke se nn dovrebbe secondo me perchè ci sono anke altre cose al di fuori) ; è fondamentale x costruirsi una vita nuova, autonoma, ecco xkè una famosa canzone dice: – Chi non lavora, non fa l’amoreeeee-
“Il lavoro mi affascina. Starei per ore a guardarlo” diceva Oscar Wilde. A parte gli scherzi, il lavoro è connaturato all’esistenza umana e il “Chi non vuol lavorare non mangi” di San Paolo ai Tessalonicesi testimonia quanto questo sia vero da sempre. Io sono cresciuto nella Brianza dedita all’operosità: lavoro ce n’era per tutti i gusti e se ne trovava facilmente. Sono un “ragazzo” degli Anni Sessanta e sono nato praticamente immerso nel lavoro. Ci sono molte fotografie in cui appaio nel maglificio dei miei nonni: con le operaie o in un cestello per bambini. Anche mia mamma lavorava lì e avevo il mio posto tra i macchinari, il tavolo da stiro e quello per il confezionamento. Per questo dicevo che “starei per ore a guardarlo”: l’ho fatto davvero! Mia mamma doveva lavorare e cucinare e badare a me, doveva stare dietro agli ordini e restava a volte fino a tardi nel maglificio. Questo era per me “il lavoro”, la fatica che vedevo fare, i sacrifici, gli sforzi.
La situazione adesso è molto cambiata: la provincia di Lecco è quella con il minor tasso di disoccupazione in Italia, ma 7 su 100 senza lavoro non è comunque una statistica che ci rende allegri. 181 aziende brianzole sono in crisi e hanno messo in cassa integrazione 7.000 addetti. Tocca prendere in prestito un detto napoletano: add’a passà ‘a nuttata!
– Allora Parraccià? Cosa hai deciso?
– Boh, la Nicolais e la Nucci dicono che devo iscrivermi al classico…
– Senti, ascolta a me. Tua madre è sarta e tua nonna ha un banco di verdure al mercato. Tu che vuoi fare? Perdere cinque anni al classico, perderne altri quattro per una laurea che non ti servirà a nulla, e stare sulle spalle di quelle povere donne, per dieci anni per poi finire disoccupato? No, dammi retta, tu devi andare all’istituto tecnico, devi aiutare la tua famiglia, ti fai cinque anni e poi cominci subito a lavorare. E’ l’unica scuola che ti può garantire un lavoro e non gravare più su tua madre e tua nonna. A scuola si va per lavorare e tu sei uno di quelli che deve lavorare il prima possibile. Hai capito?
E’ così che mi convinse Castornino, il professore di matematica delle medie. Quando lo seppero la Nicolais (italiano e latino) e la Nucci (storia e geografia) scoppiò una specie di finimondo. Tentarono di farmi cambiare idea in tutti i modi, dissero che stavo facendo una scelta sbagliata, che avrei buttato le mie capacità, che mi sarei sciupato in quella che loro consideravano una scuola di serie B. La Nucci prendendomi in disparte cercò di convincermi con l’adulazione: “No fare lo sciocco, tu hai la stoffa, potresti diventare un uomo politico, ed aiutare davvero le “classi lavoratrici” di cui ti piace parlare. Ma non lo potrai fare andando in un Istituto Tecnico. Da li escono solo futuri lavoratori; la classe dirigente viene dai licei e dalle università umanistiche. E’ così che va”.
Era la professoressa che apprezzavo di più, la Nucci, ma quel discorso non mi piacque affatto. Avevo tredici anni, una gran voglia di “andare contro” ed un odio per tutto quello che “é così che va”. Puntai sul lavoro
Per una veneta è una specie di provocazione.
Non ricordo assolutamente quando ho sentito la prima volta la parola “lavoro”. Forse subito dopo aver imparato mamma, pappa…A casa mia rappresentava il valore massimo. I miei genitori lavoravano entrambi tutto il giorno ed io stavo con i nonni, nonostante la nonna, un lavoro ce l’avesse ancora. Mia zia ha 76 anni e si mantiene ancora in attività.
La mia mamma era fuori di casa dalla mattina alla sera, tornava e preparava la cena, la sera lavorava a maglia e la domenica puliva la casa: non l’ho mai vista ferma. Il mio papà, morto quando io avevo 19 anni, aveva una doppia occupazione e non ho memoria di aver mai parlato seriamente con lui.
Nella mia famiglia ci sono vari casi di miracolo veneto. Dal nulla alcuni si sono costruiti delle industrie. Tutti bravi, ma con dei caratteracci!
Ho sempre giurato a me stessa di non essere come nessuno di loro!
Siamo usciti dalla miseria, ma con il prezzo di molta durezza.